L'interminabile cantiere del San Pietro di Zuri,
la chiesa strappata alle acque del lago

Quasi novantant'anni fa, nel 1913, la decisione di sbarrare il Tirso con una diga capace di produrre energia elettrica e raccogliere l'acqua necessaria per l'irrigazione del Campidano di Oristano condannò alcune borgate, destinate ad essere ingoiate dal lago Omodeo, all'epoca il più grande bacino artificiale d'Europa.

Ma la legge che diede il via alla realizzazione dell'invaso aveva previsto anche la ricostruzione degli abitati sommersi dall'acqua e in particolare di qualsiasi monumento di valore storico. Fu così che la chiesa romanica di San Pietro di Zuri fu smontata e rimontata fedelmente, pietra su pietra, a una quota superiore.

La borgata di Zuri era nata su una piana a 88 metri sul livello del mare e l'acqua del bacino in progetto avrebbe dovuto raggiungere quota 105 metri. Nel 1923, completati i lavori in muratura della diga, l'esigenza di trasferire altrove le case e la chiesa divenne un'urgenza: le condizioni di piena del fiume consigliavano un immediato riempimento del lago per non rimandare di un anno la produzione dell'energia elettrica tanto attesa. Si passò quindi allo studio dei mezzi più idonei per la ricostruzione della chiesa in una località lontana dal lago, secondo le dimensioni e le forme originarie.

Dopo una serie di rilievi grafici e fotografici, il 28 marzo l'ispettore Carlo Aru diede il via all'opera di demolizione, che andò avanti per ventotto giorni continui di lavoro. Inizialmente si era pensato di costruire il nuovo abitato a "Seddargius", dove furono ammucchiati ordinatamente e protetti i materiali. Ma nel corso del trasferimento alcune famiglie preferirono andare a stabilirsi nei paesi vicini, e la maggioranza di quanti erano rimasti scelse la zona di "Murreddu", sull'altipiano di Ghilarza, sul ciglio dell'omonima pendice fra i villaggi di Soddì e di Tadasuni. Si provvedette quindi ad apprestare i mezzi e le opere per la ricostruzione della chiesa sull'altipiano.

L'intervento di smontaggio e ricostruzione del San Pietro di Zuri - uno dei pochi casi di anastilosi in Italia - impose all'ispettore Aru l'analisi del problema fondamentale dell'anastilosi: rimontaggio esattamente secondo le forme e le strutture rilevate al momento dello smontaggio, oppure ripristino delle forme originarie, nel caso fossero state alterate? [Aru, 1926, p. 80]

Tale dubbio non sussisteva riguardo all'abside, che aveva un grande valore storico-artistico e costruttivo e doveva quindi essere ricostruita secondo le forme del XIV secolo, lasciando evidenti le rotture delle arcate interne ed esterne nel muro posteriore. L'Aru si limitò solamente a correggere le irregolarità e gli errori commessi dai rifacitori: raddrizzò le colonnine che non cadevano a piombo, tirò a lenza dritta le cornici, rimise a sesto archi aggobbiti. Nella ricostruzione del fianco destro, rifatto nel 1830 col riuso degli stessi materiali originari ma con un eccesso di malta, limitò l'uso di questa per riportare l'ultima archeggiatura alla sua integrità.

Inoltre, pur essendo i conci per la maggior parte ancora in buono stato di conservazione dopo la demolizione, durante il trasporto da Seddargius all'altipiano subirono qualche lesione, come scheggiature agli spigoli, e furono messi in disordine. Fu quindi necessaria una cernita del materiale, per eliminare quello più danneggiato e far risquadrare il rimanente, collocando i conci interi in opera.

Sorse anche il problema della ricostruzione "in stile" della facciata presunta medioevale, con al centro una bifora di cui si intuì l'esistenza con i pochi elementi trovati (il capitello della colonnina mediana e il pezzo di imposta dei due archi al centro). Ma se in un primo momento - guardando la facciata del San Pietro di Bosa, costruita sul modello del San Pietro di Zuri - l'Aru propose la sostituzione della finestra rettangolare di quest'ultimo con un rosone sull'esempio del primo, confortato per giunta dal fatto che nelle facciate romanico-lombarde il rosone tipico è prevalente, non riuscì a trovare la soluzione definitiva, che non ne ammettesse cioè nessun'altra. Ricompose perciò la finestra rettangolare.

Per le finestre dei fianchi, dal momento che in una di esse rimanevano tutti gli elementi per una ricomposizione, non sussisteva alcun problema. Tanto più che dovevano aggiungersi degli elementi privi di qualsiasi decorazione. Il campanile fu ricostruito liberandolo dalla torre quadrata, aggiunta in epoca posteriore e addossata al fianco sinistro della chiesa.

Più complessa fu la ricostruzione dell'altare maggiore: aveva anche il compito di nascondere l'abside, creando così dietro di sè una specie di vano-sagrestia, come i grandi retabli in molte chiese (Ardara, Villamar, Suelli). Il nuovo altare fu eseguito nella forma più semplice, senza alcuna pretesa stilistica o ornamentale. Le iscrizioni furono ricollocate esattamente al loro posto. I lavori di ricostruzione furono ultimati nel luglio 1925.

Le varie fasi costruttive

La struttura attuale della chiesa è quindi il risultato - oltre che dell'anastilosi del 1923, ovviamente - di numerosi rifacimenti ed aggiunte, dovuti ai ripetuti crolli che si verificarono nel tempo, forse a causa della scarsa perizia con cui erano state originariamente realizzate le fondazioni (R. Serra, 1991, p. 55).

La chiesa di San Pietro di Zuri si presenta come una struttura mononavata a pianta rettangolare (7,50 x 26,90 metri) che si potrebbe far risalire al XII secolo. La facciata è incompleta: la metà superiore - ora priva di ripartizioni - fu ricostruita in età tarda. L'ordine inferiore, invece, è diviso in tre specchi conclusi da arcate semicircolari: fra loro domina il vano che si apre nell'arcata centrale.

Le uniche informazioni documentali sulla chiesa di San Pietro si possono ricavare dall'iscrizione murata in facciata: nacque probabilmente come cappella di un'abbazia benedettina femminile. Per il resto, non si ha alcuna testimonianza scritta su questo convento: non viene rivendicato da alcun ordine religioso. Successivamente, forse all'epoca del restauro dell'abside (1336-68), attorno alla chiesa di San Pietro si raccolse una piccola comunità, la cui esistenza è attestata nel 1388.

Altri dati sulla chiesa sono stati dedotti durante la fase di smontaggio, nel 1923. L'analisi formale dell'edificio evidenzia l'esistenza di almeno tre diverse apparecchiature murarie, caratterizzate da altrettanti tipi di scarpa dello zoccolo. Si va dal modello più arcaico nelle facciate laterali a quello più evoluto del prospetto principale, sino alla tipologia dell'abside e dei pilastroni di vertice.

Anche le archeggiature si differenziano tra il prospetto principale, quello posteriore e la parte interna dell'abside, e tutte si differenziano da quelle a coronamento delle facciate laterali, che, invece, presentano notevoli analogie con quelle dell'abside. Quest'ultimo particolare è evidenziato, sia all'interno che all'esterno, dalle variazioni dimensionali e cromatiche dei conci, pur sempre ben squadrati, che si individuano nei fianchi sino alla quota delle mensole di sostegno degli archi di coronamento.

Si possono notare alcune differenziazioni formali tra i prospetti laterali e le facciate principale ed absidale: il motivo della parete nuda movimentata dalle lesene caratterizza solo i primi, mentre è completamente assente nelle seconde. Tra gli uni e le altre cambia inoltre il disegno della risega dello zoccolo. Infine lo spessore murario è pari a 0,70 metri nei lati contro l'1,30 dei prospetti più corti.

La mancanza di documentazione storica non consente di spiegare perché nel San Pietro di Zuri siano assenti le modalità stilistiche tardoromaniche che avevano avuto il loro fulcro nell'abbazia camaldolese di Bonarcado, e che, invece, si ritrovano nella vicina chiesa di Fordongianus (facciata meridionale di San Lussorio). Ciò costituisce una conferma dell'ipotesi della presenza - almeno per quanto riguarda la seconda metà del XIII secolo - di maestranze estranee alla cultura locale.

Il primo impianto della chiesa si presentava come una struttura mononavata a pianta rettangolare, che come accennato si potrebbe far ascendere al XII secolo. Già da quest'epoca l'edificio era caratterizzato dalle attuali dimensioni dell'aula, con un rapporto tra larghezza e lunghezza di 1 a 3,6 che richiama analoghe proporzioni nelle chiese monastiche di San Michele di Salvennor, presso Ploaghe (fine sec.XI), nella Santissima Trinità di Saccargia (ante 1116), e, forse, nel San Lussorio di Fordongianus (fine sec. XI - inizi XII). Ma anche in edifici a navata unica databili al XII secolo tra cui il San Giorgio di Ogliastreta a Usini [R. Serra, 1989], e il San Lorenzo di Rebeccu, a Bonorva.

La scarsa leggibilità delle strutture superstiti del San Pietro di Zuri non facilita la collocazione cronologica della fabbrica, proponibile alla seconda metà del XII secolo sulla base della stretta analogia formale dei fianchi laterali con quelli del San Nicola di Ottana, intorno al 1160 [R. Serra, 1989]. Ad autorizzare quest'ipotesi, che si avanza qui per la prima volta, valgono le indicazioni dell'apparecchiatura muraria esterna nelle due facciate laterali sino alla quota delle mensole, caratterizzate dal motivo della parete nuda movimentata dalle alte lesene, il cui possibile modello di confronto è costituito proprio dal prospetto meridionale del San Nicola di Ottana.

È facile rilevare che le caratteristiche dell'interno denunziano le stesse interruzioni o riprese costruttive evidenziate dalle differenze nel paramento esterno.

Anche la porticina meridionale dovrebbe risalire alla seconda metà del XII secolo. Il motivo del portale con le foglie d'acanto è molto diffuso. Si possono citare alcuni riscontri: San Nicola di Ottana, San Pietro di Sorres (seconda metà sec. XII), Santa Maria di Tergu (seconda metà sec. XII), San Pietro del Crocifisso a Bulzi, Santa Maria di Cea a Banari (seconda metà sec. XII), Santa Maria del Regno di Ardara, San Platano di Villaspeciosa (secondo quarto sec. XII).

Caratteristiche simili al primo nucleo del San Pietro di Zuri si ritrovano solo in chiese costruite tra la fine del secolo XI e la seconda metà del XII: San Lussorio di Fordongianus (primo impianto), Santa Maria di Ardara, San Nicola di Ottana, San Nicola di Silanus (Sedini), San Leonardo di Cuga (Ittiri); e ancora nel primo impianto della Santa Maria di Bonarcado, di San Michele di Plaiano (Sassari), San Michele Salvennor (Ploaghe), San Paolo di Milis. Tranne Ardara e Ottana, erano tutte cappelle di monasteri benedettini insediatisi in Sardegna tra la seconda metà dell'XI secolo e la prima metà del XIII.

In particolare nella cattedrale di Ottana la fabbrica si svolse poco prima del 1160 in due tempi: al primo spettano l'abside, il transetto ed il fianco nord, al secondo la facciata e il fianco meridionale. Cambiano forme e ritmi delle archeggiature, che nel primo tempo s'impostano su lesene intervallate secondo un numero variabile di archetti, mentre nel fianco sud e nella facciata raccordano coppie di lesene, scandendo un numero di specchi corrispondente a quello degli archetti stessi (R. Coroneo, 1993). Il San Nicola differisce da Zuri nella fisionomia della facciata, essendo stata quella di Zuri rifatta successivamente.

Il San Nicola, insieme al San Paolo di Milis (seconda metà sec. XII), Sant'Antioco di Bisarcio, Santa Maria di Bonarcado (prima metà sec. XII) ed altre, deriva da Santa Giusta: probabilmente furono tutte opera delle stesse maestranze. La cattedrale di Santa Giusta è caratterizzata da forme allungate, snelle, dalle luminose pareti esterne scandite da arcature cieche che rimandano all'apparato strutturale della cattedrale di Pisa [R. Serra, 1989]. E da Santa Giusta la prima maestranza di Zuri copiò la struttura a pianta allungata, assumendo però i rapporti dal Santa Maria Iscalas di Osilo. Dal San Nicola di Ottana (sec. XII) trasse invece il motivo delle altissime lesene che conferiscono alla superficie una dimensione derivante, forse, dal San Matteo di Pisa [R. Serra, 1989, p. 238].

Per certe caratteristiche formali, dimensioni, proporzioni, finestrature, il San Pietro di Zuri presenta affinità anche col San Francesco di Cortona (AR), datato al 1245.

La zona absidale era in origine a pianta semicircolare e raggio inferiore rispetto all'attuale, come rilevato nella fase di smontaggio delle strutture di fondazione dal ritrovamento di alcuni avanzi d'armatura sulla linea di un semicerchio, di raggio minore a quello dell'abside trecentesca. Nella parete esterna del prospetto absidale, inoltre, si notano due archetti laterali bruscamente interrotti dalle pareti dell'abside, che sembrano voler proseguire il motivo della facciata e dei due fianchi, e, forse, anche nell'abside semicircolare. Infine, nell'abside attuale sono ancora tre archi retti da paraste, come nei fianchi.

Per permettere l'ampliamento furono rotti due archi del muro posteriore, dei quali rimangono soltanto due metà addossate ai pilastri angolari. A completare il tutto era probabilmente una monofora. Poiché l'abside aveva circonferenza minore di quella semiottagonale, si deve dedurre che alle due semicolonne - poste forse d'impianto nella parete interna della facciata absidale - se ne affiancassero altre due, sulle quali s'impostava l'arco del catino, avente dimensioni minori rispetto all'attuale.

Secondo impianto

La chiesa fu ristrutturata nel XIII secolo e riconsacrata nel 1291, durante il regno di un non identificato re Mariano, forse il sovrano arborense che ampliò San Pantaleo a Dolianova, col quale San Pietro di Zuri non ha comunque alcun rapporto stilistico. Ne fu operaia la badessa Sardigna de Lacon. Tali dati sono riportati nell'iscrizione

(+ ANNO DNI MCCX(?)I 
FAB(?)(?)CA(?)A EH ECCLIA ET COSEC
RATA IN HONOE BEATI PETRI 
ADTI DEROMA SUB TPR IV
DICIS MAR IVDI ARBOREE ET 
FRE IODS EDS SCE IVSTE EO 
PE TPR ERAT OPARIA ABADISA 
DONA SARDIGNA D LACO 
M(?)(?)R ASELEM D CVMIS FABICAV) 

L'intervento riguardò principalmente la facciata, mentre furono lasciati sostanzialmente immutati i prospetti laterali e l'abside. I lavori vengono attribuiti, in base all'epigrafe di consacrazione, al magister Anselmo "de Cumis" (di Como o di Cuma?). Questi era probabilmente a capo delle maestranze che lavorarono anche al rifacimento della facciata della cattedrale di San Pietro Extra-muros a Bosa. Sono molte, infatti, le similitudini tra le due chiese. Il torciglione su stipiti ed arco del portale a Zuri ricorda il torciglione dell'architrave del portale a Bosa.

E proprio per la sua rassomiglianza con l'edicoletta posta sul vertice del timpano della cattedrale bosana, si deve pensare che magister Anselmo avesse posto nella stessa posizione il pilastrino ofitico attualmente nella nicchia dell'abside. Al suo posto - ma rimaneggiato - è il fregio ad archetti situato, esattamente come a Bosa, a coronamento della facciata. Altra similitudine è l'architrave scolpita, come anche a San Serafino di Ghilarza e a San Michele di Siddi, dove sono rappresentati i committenti e i santi titolari.

Caratteristica del progetto sono i capitelli dei pilastrini dei tre specchi della facciata e le mensole degli archetti laterali, così come gli altri fregi, ornati da figure fito-zoo-antropomorfe o a foglie d'acanto.

La presenza di decorazioni a toro si riscontrava nei portali di chiese dalla seconda metà del XIII secolo in poi: Santa Maria di Betlem a Sassari, San Pantaleo di Martis, San Gregorio di Sardara, nonchè nel primo pilastro a destra dell'ingresso principale del San Pantaleo di Dolianova.

Frammenti di una bifora, sostituita nel 1504 con una finestra rettangolare, furono rinvenuti nel 1923 tra i due paramenti murari della facciata. Appare perciò credibile la ricostruzione di una facciata divisa in due parti nettamente diverse, come nel San Michele Maggiore (Pavia): quella inferiore divisa in tre specchi conclusi da arcate semicircolari, che si contrappongono a una semplice parete completamente spoglia ad eccezione di una bifora, e, forse, di due aperture ad oculo.

Ancora più importante si rivela il problema della posizione originaria del partito superiore della facciata. Questa era indubbiamente più alta di circa ottanta centimetri: a rivelarcelo è infatti il frammento di cornice rimasto incassato nel muro del campanile, il quale suggerisce inoltre che le estremità inferiori degli spioventi terminassero in posizione obliqua e non orizzontale [Aru, 1926, p. 62].

Crea alcuni problemi d'interpretazione il notevole spessore dei muri delle due facciate - la principale attribuita ad Anselmo, quella absidale datata al 1336. Lo spessore di metri 1,30 (circa il doppio dello 0,70 dei muri laterali) fa ipotizzare che dovessero reggere le spinte generate da una possibile copertura a volta, probabilmente a crociera, ma che non fu edificata.

Ma la mancanza di qualsiasi traccia di ammorsature di volte o archi dà spazio alla tesi dell'Aru, secondo il quale l'architetto diede al muro di facciata uno spessore maggiore per creare gli effetti di chiaroscuro, effetti pittorici di ombre e luci [Aru, 1926]. Queste motivazioni non trovano riscontro, invece, per la facciata posteriore dove sono assenti gli effetti di ombre.

In un secondo tempo, le stesse maestranze tardoromaniche di Anselmo, o quelle trecentesche che riedificarono l'abside, rinunciarono all'edificazione della volta o alla sua ricostruzione, in favore di una copertura lignea, più leggera.

Di un maestro lombardo era, come già visto, il fregio di coronamento ad archetti a tutto sesto intersecantisi nel mezzo in modo da formare archetti più piccoli a sesto acuto: motivo così caratteristicamente lombardo da sembrare eseguito ad imitazione della cornice di gronda della basilica milanese di Sant'Ambrogio. Questo tema primeggia in Lombardia - a San Michele ed a San Pietro in Ciel d'oro a Pavia, nel tempietto di San Tommaso ad Almenno (Bergamo) - e in Emilia, come nel Duomo di Parma.

Del più genuino marchio lombardo sono pure le pilastrate d'angolo, in cui sono copiosamente distribuite inconsuete decorazioni con fogliame araldico ed animali mostruosi, come nella Santa Maria del Carmine, nel San Francesco (1230-98), nel San Pietro in Ciel d'Oro, tutte tre a Pavia (anche per gli archetti incrociati e per i finestroni laterali), nel San Pietro di Abbadia Cerreto (MI), nel Duomo di Monza (circa 1250), nel Sant'Abondio di Como.

Terzo impianto

L'indagine del 1923 portò alla scoperta dell'abside originaria, di cui rimanevano le fondazioni con tracciato semicircolare. In un concio interno alla base della muratura absidale potè leggersi un'iscrizione

MCCCXXXVI HOBRE GELOSO
COMMITE DE S.PANTALEO 

che fissa al 1336 il termine post quem. Sotto la pietra sacrale dell'altare maggiore fu rinvenuta invece la pergamena di consacrazione

(NOS LEONA(r)DUS DEI GR(ati)A
EP(iscopu)S S(anc)T(a)E IUSTE  
die xi Iulii cure(n)TE MCCCLXVIII 
consecr(a)VIMUS H(oc) ALTARE I(n) 
HONORE(m) S(anc)TI laure(n)tii cu(m) vocabulis 
B(ea)ti Guigl(i)elmi co(n)f(essor)i(s) 
atq(ue) S(anc)te Anne.)

che fissa al 1368 il termine ante quem non per la sua ricostruzione in forme gotiche, secondo l'odierno tracciato semiottagonale, in seguito forse al crollo dell'abside primitiva, di dimensioni minori.

Tra i modelli di riferimento di absidi semi ottagonali della penisola italiana è da considerare l'abside della basilica superiore del San Francesco di Assisi, e la cappella laterale sinistra della Santa Chiara d'Assisi, che presenta similitudini con la cappella gotica della Cattedrale di Cagliari, databile - come il San Francesco di Stampace - agli anni successivi al 1328-30 (M. Rassu, 2000). Si potrebbero anche ricordare il presbiterio del San Francesco di Trevi, del San Francesco di Piediluco, del San Francesco di Sangemini (M. B. Mistretta, 1983).

Un elemento caratterizzante è la trabeazione dell'abside posta a quota leggermente superiore a quella della stessa facciata posteriore. Anche le arcate dell'abside sono a quota superiore, nonchè di modello differente, rispetto a quelle della facciata.

Questa figura prismatica è ornata da lesene, come le facciate, ma è caratterizzata ancor più da tre aperture: una finestra centrale più due rosoni laterali. Tale finestra richiama modelli gotici presenti in chiese edificate o ampliate tra la fine del XIII secolo e la prima metà del XIV: San Giacomo di Taniga a Sassari (primo quarto sec. XIV); Santa Maria di Valverde a Iglesias (fine sec. XIII); San Gregorio di Sardara (primo quarto sec. XIV); Santa Maria di Mogoro (primo quarto sec. XIV). Chiese però che - essendo il risultato di ricostruzioni "in stile" volute dall'ingegner Dionigi Scano - non fanno testo.

Altre chiese di riferimento sono la Santa Maria Maddalena di Silì (metà sec. XIV); Santa Chiara di Oristano (1343-48); Santa Maria di Castello a Cagliari (primo quarto sec. XIV), Santa Maria (ante 1348) e San Martino in Oristano (metà sec. XIV), e San Gavino di San Gavino Monreale (1347) [Coroneo, 1993]. Da queste, invece, si discosta per la sua forma. Le sue lesene sono modanate a triplo toro come quelle nelle facciate del Sant'Alenixedda di Cagliari, datata secondo alcuni al primo quarto del XIV secolo, secondo altri al periodo 1260-80, per la rassomiglianza col San Donato di Sassari, dell'ultimo quarto del XIII (M. Rassu, 1994, p. 10) di probabili influssi francescani, e del San Gregorio di Sardara.

Interventi in età moderna

Intorno al 1504 la muratura della facciata fu abbondantemente risarcita dopo un crollo che interessò tale prospetto. Durante la ricostruzione della parte alta di questo prospetto venne inserita un'epigrafe

ANNO D.NICE INCARNACIONIS
MDIIII DED PAOLO DE MURTAS.

e la bifora fu sostituita dall'attuale finestra rettangolare, come risulta dai frammenti rinvenuti tra i due paramenti murari della facciata.

La facciata, inoltre, doveva essere originariamente più alta di circa 80 centimetri; infatti, il pezzo di cornice rimasto incassato nel muro del campanile sta ad indicare l'altezza primitiva dell'estremo spiovente sinistro. Ciò dimostra che il campaniletto a vela fu costruito prima di tale rinnovamento del 1504.

Nel secolo XVI fu deciso di aumentare le dimensioni delle finestre, portandole agli attuali cm 280 x 160, con intradosso nell'arco trilobato secondo un modello gotico che ritroviamo in molte parrocchiali del Logudoro.

Un rifacimento altrettanto importante fu la ricostruzione del fianco sinistro, eseguito nel 1813 con materiali e secondo forme originarie. L'intradosso nell'arco delle finestre in origine trilobato, sia nel fianco sinistro che in quello destro, fu ridotto a forma semicircolare per comodità di lavoro quando si eseguì la chiusura della luce. Infine nel 1860 fu ricostruito l'altare maggiore.

Massimo Rassu

L'autore di questo articolo.
L'ingegner Massimo Rassu
svolge la libera professione nel campo dell’architettura e dell'urbanistica.
Ha pubblicato diversi saggi di storia e di storia dell’architettura della Sardegna.
e-mail: maxrax@tiscali.it

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La chiesa di San Pietro di Zuri.
(foto Gianfranco Pirodda)

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San Pietro di Zuri, la pianta.

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Un dettaglio della facciata della chiesa di San Pietro di Zuri.
(foto Massimo Rassu)

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La riproduzione di una delle iscrizioni che segnano le tappe della costruzione della chiesa di San Pietro di Zuri.

BIBLIOGRAFIA

C. Aru, 1926: San Pietro di Zuri, Reggio Emilia.

R. Coroneo, 1993: L'architettura romanica dalla metà del Mille al primo '300, Nuoro.

M.B. Mistretta, 1983: Francesco, architetto di Dio, Roma.

M. Rassu, 1994: La Chiesa di Sant'Alenixedda, in "Sardegna Magazine New", aprile 1994, p. 10.

M. Rassu, 2000: Un falso storico sul San Francesco di Stampace mina un castello di vecchie certezze, in "Informazione" numero 91, Cagliari, novembre-dicembre 2000, pp. 31-36.

R. Serra, 1989: La Sardegna (romanica), Milano.

R. Serra, 1990: Pittura e Scultura dall'Età Romanica alla fine del '500 [in Sardegna], Nuoro.

R. Serra, 1991: Anselmo da Como, in "Enciclopedia dell'Arte Medievale", vol. II, Roma, p. 55.

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